Ci vengono continuamente richiesti consigli sui monologhi da scegliere. Vi proponiamo alcuni monologhi maschili e femminili che riteniamo possano rappresentare delle ottime sfide per le allieve attrici e gli allievi attori.
Come sempre due consigli importanti:
1) leggete tutto il copione di riferimento, non limitatevi ad imparare il monologo senza conoscere il contesto.
2) non scegliete quello che vi piace di più, ma quello che vi costringe ad uscire dalla vostra zona di comfort.
Divertitevi senza problemi a scegliere monologhi che non appartengono al vostro genere, recitare significa trasformarsi.
Se volete qualche consiglio in più, vi proponiamo le nostre “Regole del monologo perfetto”, che comprendono alcune dritte che possono aiutarvi sia nella scelta che nell’esecuzione.
MONOLOGO FEMMINILE
Chi ha paura di Virginia Wolf
Edward Albee
MARTHA Tutti siete un disastro! Tutti! Io sono la Madre Terra e voi siete dei disastri. Mi disgusto. Dedico la vita a tradimenti meschini e completamente inutili… (Ride con tristezza) a pretese di tradimenti. Saltare addosso alla padrona di casa? Che risate! Una banda di tangheri ubriachi e… impotenti. Martha gli fa gli occhi dolci e i tangheri ridacchiano e strabuzzano i loro begli occhioni e ridacchiano ancora, e Martha si lecca le labbra, e i tangheri fanno un salto al bar per raccattare un po’ di coraggio, e di fatto raccattano un po’ di coraggio, e a loro volta strizzano l’occhio alla vecchia Martha che fa una piccola danza in loro onore e questo serve a scaldarli… mentalmente.., e fanno un altro salto al bar e raccattano ancora un po’ di coraggio, mentre le mogli e le fidanzate guardano in aria.., a volte anche oltre il soffitto.., e questo rimanda i tangheri al bar per raccattare ancora un po’ di combustibile, mentre Martha se ne sta lì col vestito alzato sopra la testa… a soffocare — non sai quanto si soffochi col vestito alzato sopra la testa — a soffocare, dunque! ad aspettare i tangheri; e allora finalmente hanno raccattato tutto il loro coraggio… ma soltanto quello, bimbo mio! Oh, certo, a volte capita qualche tanghero di buon potenziale, ma buon Dio! Buon Dio! Buon Dio! Comunque è così che vanno le cose in una società civile. Tutti quei bellissimi tangheri. Poveri bambini. C’è stato soltanto un uomo in tutta la mia vita che mi ha… fatta felice. Lo sai? Soltanto uno. George… mio marito.
George che è li fuori nel buio… George che è buono è con me e che io insulto; che mi capisce e che io respingo; che sa suscitare in me una risata che io soffoco in gola; che sa tenermi stretta di notte tanto da scaldarmi e che io mordo tanto da farlo sanguinare; che sa sempre imparare i nostri giochi con la stessa rapidità con cui io ne cambio le regole; che può farmi felice, quando non voglio essere felice, e invece si, voglio essere felice. George e Martha: triste, triste, triste.
George cui non perdonerò mai di esser venuto per restare; di avermi visto e di aver detto: si, si può tentare; che ha commesso l’odioso, l’offensivo, l’insultante sbaglio di amarmi e per questo deve essere punito. George e Martha: triste, triste, triste.
George che sopporta, il che è insopportabile; che è gentile, il che è crudele; che comprende, il che è incomprensibile…
Un giorno… no, una notte… una qualunque stupida notte, imbottita di liquore… andrò troppo in là… e gli spezzerò la schiena… o lo leverò di mezzo una volta per tutte… ed è quello che mi merito.
MONOLOGO FEMMINILE
Giulio Cesare
William Shakespeare
PORZIA (in stato catatonico)
La sua mano sinistra si è infiammata bruciando come venti torce tutte insieme, e tuttavia la sua, insensibile al fuoco, è rimasta intatta.
Davanti alla casa ho incontrato un lupo che mi ha guardato fisso e se n’è andato via torvo, senza farmi alcun male.
All’improvviso, pieno mezzogiorno, e una civetta si è seduta in mezzo alla piazza, urlando e stridendo.
Una statua che grondava sangue come una fontana: molti si sono accostati sorridendo e in quel sangue bagnavano le mani.
E una leonessa vagava per le strade in cerca di un luogo dove partorire…
Ho sognato stanotte che cenavo con Cesare, e cose di cattivo auspicio gravano sulla mia fantasia. Non ho nessuna voglia di allontanarmi da casa, eppure qualcosa mi spinge fuori.
Come ti chiami?
Dove stai andando?
Dove abiti?
Sei sposata o nubile?
Rispondi direttamente a ognuno.
Sì, e brevemente.
Sì, e saggiamente.
Sì, e sinceramente, ti conviene.
Come mi chiamo? Dove sto andando? Dove abito? Sono sposata o nubile? Allora, per rispondere a ognuno precisamente e brevemente, saggiamente e sinceramente; saggiamente dico che sono nubile.
Ciò equivale a dire che sono gli scemi a sposarsi. Per questo, ho paura che ti prenderai uno schiaffo da me.
Procedi: direttamente.
Direttamente, sto andando al funerale di Cesare.
Da amica o da nemica?
Da amica.
A questo ha risposto direttamente.
La tua abitazione, brevemente.
Brevemente, abito vicino al senato.
Il tuo nome, signora, sinceramente.
Sinceramente il mio nome è Porzia.
Fatela a pezzi, è una cospiratrice!
Io sono Porzia la moglie di Bruto!
Fatela a pezzi per i suoi brutti sogni, fatela a pezzi per i suoi brutti sogni.
Io non sono Porzia la cospiratrice!
Non fa nulla, il suo nome è Porzia! Strappatele dal cuore soltanto il nome, e lasciatela andare.
Fatela a pezzi, fatela a pezzi! Avanti, un colpo! Avanti!
MONOLOGO FEMMINILE
Salomè
Oscar Wilde
SALOMÈ (Un grande braccio nero, il braccio del boia, emerge dalla cisterna portando su uno scudo d’argento la testa di Iokanaan. Salomè la afferra. Erode si nasconde il viso con il mantello. Erodiade sorride e agita il ventaglio. I nazareni s’inginocchiano e incominciano a pregare)
Ah! Tu non volevi che io baciassi la tua bocca, Iokanaan. Guarda, ora la bacerò. La morderò con i denti come si morde un frutto maturo. Sì, bacerò la tua bocca, Iokanaan. Te l’avevo detto, vero? Te l’avevo detto. Ecco, ora la bacerò… Ma perché non mi guardi, Iokanaan? I tuoi occhi che erano così tremendi, che erano così pieni di collera e di disprezzo, sono chiusi ormai. Perché sono chiusi? Apri gli occhi! Solleva le palpebre, Iokanaan. Perché non mi guardi? Hai paura di me, Iokanaan, che non mi vuoi guardare? E la tua lingua che era come un serpente rosso che scocca veleni, non si agita più, non dice più niente ormai, Iokanaan, quella vipera rossa che ha vomitato su di me il suo veleno. Strano, vero? Come è mai possibile che quella vipera rossa non si agita più? Non mi hai voluta, Iokanaan. Mi hai respinta. Mi hai detto cose infami. Mi hai trattata come una cortigiana, come una prostituta, io, Salomè, figlia di Erodiade, principessa di Giudea! Guarda, Iokanaan, io sono ancora viva, ma tu sei morto e la tua testa è mia. Posso farne quello che voglio. Posso buttarla ai cani e agli uccelli dell’aria. Ciò che i cani lasceranno, gli uccelli dell’aria lo mangeranno… Ah, Iokanaan, Iokanaan, sei stato il solo uomo che io abbia mai amato. Tutti gli altri uomini mi fanno ribrezzo. Ma tu eri bello. Il tuo corpo era una colonna d’avorio su un piedistallo d’argento. Era un giardino pieno di colombe e di gigli d’argento. Era una torre d’argento ornata di scudi d’avorio. Non c’era niente al mondo bianco come il tuo corpo. Non c’era niente al mondo nero come i tuoi capelli. Nel mondo intero non c’era niente rosso come la tua bocca. La tua voce era un turibolo che spande strani profumi, e quando ti guardavo sentivo una strana musica! Ah! Perché non mi hai guardato, Iokanaan? Dietro le tue mani e dietro le tue maledizioni tu hai nascosto il viso. Hai legato sugli occhi la benda di chi vuole veder il suo Dio. Bene, l’hai visto, il tuo Dio, Iokanaan, ma me… me… non mi hai mai vista. Se mi avessi vista, mi avresti amata. Io ti ho visto, Iokanaan, e ti ho amato. Oh! Quanto ti ho amato. Ti amo ancora, Iokanaan. Amo solo te… Ho sete della tua bellezza. Ho fame del tuo corpo. E né il vino, né la frutta possono appagare il mio desiderio. Cosa farò adesso, Iokanaan? Né i fiumi né le alte mareggiate potranno spegnere la mia passione. Io ero una principessa, tu mi hai disprezzata. Ero una vergine, tu mi hai sverginata. Ero casta, tu hai riempito le mie vene di fuoco… Ah! Ah! Perché non mi hai guardata, Iokanaan. Se mi avessi guardata mi avresti amata. Lo so che mi avresti amata, e il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte. Bisogna guardare soltanto l’amore.
Ah! Ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato la tua bocca. C’era un acre sapore sulle tue labbra. Il sapore del sangue? Ma forse era il sapore dell’amore. Dicono che l’amore ha un acre sapore… Ma cosa importa? Cosa importa? Ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato la tua bocca.
MONOLOGO MASCHILE
Cyrano De Bergerac
Edmond Rostand
CYRANO: Sai dirmi in che maniera? Andar sotto padrone? Cercarmi un protettore? E come un’ oscura edera che s’appoggia arrampicandosi all’albero tutore leccandogli la scorza, voler salir da furbo, e non invece a forza? No, grazie. Dedicare in ogni scartafaccio dei versi ai finanzieri? Mutarsi in un pagliaccio, sperando di vedere, sul labbro di un ministro, lo spasmo di un sorriso un po’ meno che sinistro? No, grazie. Banchettare ogni giorno da un pidocchio? Avere il ventre logoro dallo strisciare, e il ginocchio più prestamente sporco nel punto in cui si flette? Rendermi primatista in assurde piroette? No, grazie. Riconoscere talento ai dozzinali? Plasmarmi su ogni critica che appare sui giornali? Oppure vivere sognando: “Oh, sento già la mia gloria percorrere le pagine dei libri di storia”? No, grazie. Fare calcoli? Tremare? Arrovellarsi? Preferire una visita a un paio di versi sparsi? Stendere delle suppliche? O farsi commendare? No, grazie. No, grazie. No, grazie. Ma cantare, sognare, ridere. Splendido. Da solo, in libertà. Aver l’occhio sicuro, la voce in chiarità. Mettersi se ti va di sghimbescio il cappello, per un sì, per un no, fare un’ode o un duello. Fantasticare, a caccia non di gloria o di fortuna, ma su un viaggio a cui si pensa, sulla luna! Se poi viene il trionfo, ebbene fatti suoi, ma mai, mai diventare un “come tu mi vuoi”. E se pur quercia o tiglio davvero non si è… salire anche non alto, ma farcela da sé.
MONOLOGO MASCHILE
Novecento
Alessandro Baricco
TIM TOONEY Ladies and Gentlemen, meine Damen und Herren, Signore e Signori, Mesdames e Messieurs, benvenuti su questa nave, su questa città galleggiante che assomiglia in tutto e per tutto al Titanic! Ma tranquilli, questa nave è a prova di iceberg, almeno così ci hanno detto. A proposito che ci fate qui?
Una scommessa, vero? Anzi no, avevate i creditori alle calcagna, Oppure volevate solo vedere la nave e poi non vi siete accorti che era partita…
In questo momento vostra moglie è alla polizia che denuncia la vostra scomparsa…”era un uomo buono, normalissimo, in trent’anni mai un litigio. . .”
Insomma! Che diavolo ci fate qua, a trecento miglia da qualsiasi cazzo di terra ferma e a due minuti dalla prossima vomitata? Pardon madame, scherzavo…
Si fidi, questa nave se ne va come una biglia sul biliardo dell’Oceano… tac: sei giorni, due ore e quarantasette minuti e plop, in buca, New Yoooooork!
Non credo che ci sia bisogno di spiegarvi come questa nave sia, in molti sensi, una nave straordinaria e in definitiva unica.
Al comando del capitano Smith, noto claustrofobo e uomo di grande saggezza (avrete certo notato che vive in una scialuppa di salvataggio), lavora per voi uno staff praticamente unico di professionisti assolutamente fuori dall’ordinario: Paul Siezinskj, timoniere, ex sacerdote polacco, sensitivo, pranoterapeuta, purtroppo cieco…
Bill Joung, marconista, grande giocatore di scacchi, mancino, balbuziente. . . Il medico di bordo, dott. Klausermanspitzwegensdorfentag, aveste urgenza di chiamarlo siete fregati… Ma soprattutto: Monsieur Pardon…lo chef…direttamente proveniente da Parigi…Purtroppo se n’è anche tornato a Parigi, subito dopo aver verificato di persona la “curiosa circostanza” che vede questa nave priva di cucine. Circostanza che ha argutamente notato, tra gli altri, Monsieur Camembert, cabina 12, che oggi si è lamentato per aver trovato il lavabo pieno di maionese…
Cosa strana, perché di solito nei lavabi teniamo gli affettati, questo per via dell’inesistenza delle cucine…e questo grazie alla spiritosa dimenticanza del progettista di questa nave, l’insigne ingegner Camilleri, anoressico di fama mondiale.
Credetemi, non ne troverete altre di navi così:
Forse, se cercherete per anni sono sicuro che riuscirete a trovare un capitano claustrofobico, un timoniere cieco, un marconista balbuziente e un dottore dal nome impronunciabile, tutti sulla stessa nave, una nave senza cucine.
Può darsi.
Ma quel che non vi succederà più, potete giurarci, è di stare lì seduti col culo su dieci centimetri di poltrona e centinaia di metri d’acqua, nel cuore dell’Oceano, con davanti agli occhi il miracolo, nelle orecchie la meraviglia, nei piedi il ritmo e nel cuore il sound
Dell’unica, inimitabile, infinita, ATLANTIC JAZZ BAAAAND !!!!!
MONOLOGO MASCHILE
Il re muore
Eugène Ionesco
BERENGER IV: Come fare? Non è possibile, oppure nessuno vuole aiutarmi. Io stesso non posso aiutarmi. O sole, o sole mio, aiutami tu, fuga le ombre, dissipa la notte. Sole, sole, rischiara tutte le tombe, entra in tutti gli angoli bui, in tutti i buchi, penetra in me. Ah! i miei piedi cominciano a raffreddarsi, vieni a scaldarmi, entra nel mio corpo, sotto la mia pelle, nei miei occhi. Riaccendi la loro fiamma vacillante e fa’ ch’io veda, veda, veda. Sole, sole, mi rimpiangerai? Caro sole, buon sole, difendimi. Isterilisci e distruggi il mondo intero se occorre un piccolo sacrificio. Che tutti periscano, purché io viva eternamente, anche solo, in un deserto senza frontiere. Mi metterò d’accordo con la solitudine. Custodirò il ricordo degli altri e li rimpiangerò sinceramente. Io posso vivere nell’immensità trasparente del vuoto. E meglio rimpiangere che essere rimpianti. D’altronde non lo si è mai. Luce del giorno, aiuto! Che io esista, magari col mal di denti, per secoli e secoli. Ahimè, ciò che deve finire è già finito. No, non si piange abbastanza attorno a me, non mi si piange abbastanza. Non c’è abbastanza angoscia. Non impedite a nessuno di piangere, di urlare, d’aver pietà del re, del giovane re, del povero piccolo re, del vecchio re. Io mi commuovo quando penso che esse mi rimpiangeranno, che non mi vedranno piú, che saranno abbandonate, che saranno sole. Son sempre io a pensare agli altri, a tutti. Entrate in me, voi, siate me, entrate nella mia pelle. Muoio, capite, voglio dire che muoio, ma non riesco a dirlo, faccio soltanto della letteratura. Sono tutti degli estranei. E io credevo che formassero la mia famiglia. Ho paura, sprofondo, affondo, non so più niente, non sono mai esistito. Muoio. O tutti voi, legioni e legioni, che siete morti prima di me, aiutatemi. Ditemi come avete fatto a morire, ad accettare. Insegnatemelo. Che il vostro esempio mi conforti, ed io possa appoggiarmi a voi come a grucce, a braccia fraterne. Aiutatemi a varcare la soglia che voi avete varcato. Tornate per un istante in questo mondo, venite in mio soccorso. Aiutatemi, voi, che avete avuto paura e che non avete voluto. Come sono andate le cose? Chi vi ha sostenuto? Chi vi ha trascinato, chi vi ha spinto? Avete avuto paura sino alla fine? E voi, che eravate forti e coraggiosi, che avete acconsentito a morire con indifferenza e serenità, insegnatemi l’indifferenza, insegnatemi la serenità, insegnatemi la rassegnazione.
MONOLOGO FEMMINILE
I rusteghi
Carlo Goldoni
FELICE Mo perché questo, mo perché st’altro! Ascoltème; sentì l’istoria come che la xè. Lassème dir; no me interrompè. Se gh’ho torto, me darè torto; e se gh’ho rason, me darè rason. Prima de tuto, lassè, patroni, che ve diga una cossa. No andè in colera, e no ve n’abiè per mal. Sè tropo rusteghi; sè tropo salvadeghi. La maniera che tegnì co le donne, co le muggier, co la fia, la xè cusì stravagante fora de l’ordinario, che mai in eterno le ve poderà voler ben; le ve obedisse per forza, le se mortifica con rason, e le ve considera, no marii, no padri, ma tartari, orsi e aguzini. Vegnimo al fato. (No “vegnimo a dir el merito”, vegnimo al fato). Sior Lunardo vol maridar la so pura, nol ghe lo dise, nol vol che la lo sapia; no la lo ha fa véder; piasa, o no piasa, la lo ha da tòr. Accordo anca mi, che le pute no sta ben, che le fazza l’amor, che el mario ghe l’ha da trovar so sior padre, e che le ha da obedir, ma no xè mo gnanca giusto de meter alle fie un lazzo al colo, e dirghe: ti l’ha da tiòr. Gh’avè una fia sola, e gh’avè cuor de sacrificarla? (a Lunardo) Mo el puto xè un puto de sesto, el xè bon, el xè zovene, nol xè bruto, el ghe piaserà. Seu seguro, “vegnimo a dir el merito”, che el gh’abia da piàser? E se nol ghe piasesse? Una puta arlevada a la casalina con un mario fio d’un pare selvadego, sul vostro andar , che vita doveràvela far? Sior sì, avemo fato ben a far che i se veda. Vostra muggier lo desiderava, ma no la gh’aveva coraggio. Siora Marina a mi s’ha racomandà. Mi ho trovà l’invenzion de la maschera, mi ho pregà el forestier. I s’ha visto, i s’ha piasso , i xè contenti. Vu doveressi esser più quieto, più consolà. Xè compatibile vostra muggier, merita lode siora Marina. Mi ho operà per bon cuor. Se sè omeni, persuadève, se sè tangheri, sodisfève. La puta xè onesta, el puto no ha falà; nualtre semo donne d’onor. Ho fenito la renga; laudè el matrimonio, e compatì l’avocato.
MONOLOGO FEMMINILE
Filomena Marturano
Eduardo De Filippo
FILOMENA (Risoluta) E chi sei tu, che vuoi impedirmi di dire ai miei figli, che mi sono figli? (A Nocella) Avvocato, questo la legge del mondo me lo permette, no?… (Più aggressiva che commossa) Mi siete figli! E io sono Filomena Marturano, e non ho bisogno di parlare. Voi siete giovanotti e avite sentito parlare di me. (I tre giovani rimangono impietriti: Umberto sbiancato in volto, Riccardo gli occhi a terra come vergognoso, Michele con la sua aria imbambolata per la meraviglia e la commozione. Filomena incalza) Di me non devo dire niente! Ma di me fino ai miei diciassette anni, sì. Avvocato, conoscete quei bassi… A San Giovanniello, ai Vergini, a Forcella, ai Tribunali, al Pallonetto! Neri, affumicate… dove d’estate non si respira per il caldo perché la gente è tanta, e d’inverno il freddo fa sbattere i denti…Dove non c’è luce neanche a mezzogiorno… Pieni di gente! Dove è meglio avere freddo che avere caldo… In uno di quei bassi, al vicolo San Liborio, abitavo io con la famiglia mia. Quanti eravamo? Una folla! Io non so che fine ha fatto la mi famiglia. Non voglio saperlo. Non lo ricordo!… Sempre con le facce girate, sempre in urto l’uno con l’altro… Andavamo a dormire senza dirci: «Buonanotte!». Ce svegliavamo senza dirci: «Buongiorno!» Ricordo solo una parola buona, che mi disse mio padre… e quando me la ricordo tremo ancora… Avevo tredici anni. Mi disse: «Ti stai facendo grande, e qui non c’è da mangiare, lo sai?» E il caldo!… Di notte, quando si chiudeva la porta, non si poteva respirare. La sera ci mettevamo intorno alla tavola… Un solo piatto grande e non so quante forchette. Forse non era vero, ma ogni volta che mettevo ‘la forchetta in quel piatto, mi sentivo osservata. Mi sembrava di rubarlo, quel cibo!… Avevo diciassette anni. Passavano le signorine vestite bene, con belle scarpe, e io le guardavo… Passavano sottobraccio ai fidanzate. Una sera incontrai una mia amica, che non conobbi talmente stava vestita bene… Forse, allora, tutto mi sembrava più bello… Me disse: (Sillabando) «Così… così… così…» Non ci dormii tutta la notte… E il caldo… il caldo… E conobbi te! (Domenico trasale) Là, ti ricordi?… Quella «casa» mi sembrava una reggia… Una sera tornai al vicolo San Liborio, il cuore mi batteva forte. Pensavo: «Forse non mi guarderanno in faccia, mi metteranno alla porta!» Nessuno mi disse niente: chi me dava la sedia, chi m’accarezzava… E mi guardavano come se fossi una superiore a loro, che dà soggezione… Solo mamma, quando andai a salutarla, aveva gli occhi gonfi di lacrime… Non ritornai più a casa mia! (Quasi gridando) Non ho ucciso i miei figli! La famiglia… la famiglia! Ci ho pensato per venticinque anni! (Ai giovanotti) E vi ho cresciuti, vi ho fatto diventare uomini, ho derubato lui (Mostra Domenico) per crescervi!
MONOLOGO FEMMINILE
Troiane
Euripide
CASSANDRA Corona, madre, la mia testa vittoriosa. Esulta per le mie nozze regali. Spingimi a questo passo, se io indugio. Se Apollo è davvero dio Ambiguo, Agamennone, il grande signore, avrà per sé una sposa più funesta di Elena. Io strumento di morte, io rovina della sua casa, io vendetta per mio padre e i miei fratelli, morti. Ma… questi orrori voglio tacere. Non canterò la scure che si abbatte sul collo, per me e gli altri. Non canterò il matricidio, né la rovina atroce della casa di Atreo. Io, ora, piena di dio, uscirò ora dal mio delirio e dirò: questa città in fiamme è più felice dei Greci. Loro, alla caccia di Elena, per una donna, per un amore, hanno perduto infiniti uomini. E Agamennone, così nobile e saggio, per una cosa odiosa ha distrutto la cosa più cara: sua figlia, Ifigenia, gioia del focolare. E tutto questo per godersi una donna, rapita non a forza, ma fuggita di sua volontà. Qui, sulle rive di Scamandro, son venuti a morire, non a difendere la loro patria. Quelli che Ares s’è preso non hanno visto i figli, non sono stati avvolti nel sudario funebre dalle loro mogli, ma giacciono in una terra straniera. E nella loro patria morivano vedove le donne, e i padri senza figli, e i figli crescevano per altri. E nessuno su quelle tombe offrirà sangue di vittime alla terra. Ecco, di questa lode è degno questo esercito. Ma… queste vergogne voglio tacere. Per me non ci sia canto per cantare il male. Ma i Troiani, loro sì, son morti per la patria e questa è lode santa. Morti sul campo, abbracciati dalla terra materna, composti in candidi panni dalle mani dei cari. E chi non moriva in battaglia, a sera, ogni giorno, tornava ai figli e alla sposa. Queste gioie gli Achei non conobbero. E il destino di Ettore, per te doloroso, ascolta in realtà come sta: un uomo è scomparso, è morto ed ha fama di eroe, e questo grazie agli Achei. Se quelli restavano a casa, lui era ignorato, lui valoroso com’era. E Paride ha sposato la figlia di Zeus: se non la sposava, restava all’oscuro nella sua casa. Chi è sano di mente deve evitare la guerra, ma se si arriva alla guerra, la bella morte sarà corona di gloria per la sua patria. Per questo, madre, non devi piangere né questa nostra terra né il mio letto: i tuoi nemici e i miei, odiosi, io con le mie nozze li distruggerò.
MONOLOGO FEMMINILE
La signorina Julie
August Strindberg
JULIE Ammazza anche me! Ammazzami! Tu che puoi uccidere una bestiolina innocente, senza che ti tremi la mano! Ti odio! Maledico l’istante in cui ti ho visto per la prima volta; maledico l’istante in cui fui concepita nel grembo di mia madre! Io vorrei vedere il tuo, di sangue, e tutto il tuo cervello sopra questo tavolo!… Tutto il tuo sesso vorrei vederlo galleggiare in un lago di sangue!… E credo che potrei bere nel tuo cranio; che potrei immergere i miei piedi nelle tue viscere; che potrei sfamarmi col tuo cuore arrostito allo spiedo!… Tu credi che io sia debole, credi che ti ami, perché ti ho desiderato dentro di me; credi che io voglia portare la tua discendenza dentro la mia pancia, nutrendola col mio sangue… credi che io intenda partorire un figlio tuo cui verrebbe imposto il tuo nome!… Ma come ti chiami? Io non l’ho mai sentito, il tuo nome di famiglia!… credo anzi che tu non ne abbia nessuno! E io dovrei diventare la signora portinaia… oppure la signora lavapiatti… perché tu – cane che porti il mio collare – possa farmi rivale della mia serva? È qui che intendo restare! Mio padre tornerà a casa; troverà la cassaforte aperta e il denaro sparito! Alzerà il telefono per chiamare il servitore!… Gli ordina di andare a chiamare la polizia… cui io racconterò tutto. Tutto!… Oh, sarà bello da vedere!… purché si finisca. Allora a mio padre gli piglierà un accidente e ne morirà!… E si morirà tutti insieme… e vi sarà la pace…l’eterno riposo!… e il servo ambizioso… conquisterà i suoi allori in una fogna e finirà per morire in galera! Tu mi puoi capire, Kristina; ascoltami. (parlando in fretta). Tu non hai mai viaggiato, Kristina, e devi pure uscir di qui e conoscere il mondo! Non puoi farti un’idea di quanto sia piacevole viaggiare!… Veder facce nuove… nuovi paesi… e così arriveremo ad Amburgo, dove potremo visitare il giardino zoologico… quello ti piacerà di certo. Poi ce ne andremo a teatro per sentire l’opera… e quando saremo a Monaco, visiteremo i musei!… Rubens, Raffaello, grandissimi pittori, come ben sai… Hai di certo sentito parlare di Monaco, dove abitava re Luigi… quel re che diventò matto, come sai. E potremo visitare i suoi castelli. Si, perché ci sono ancora dei castelli, arredati come nelle fiabe!… E di là, per recarci in Spagna, non sono che due passi. Giunti là, impianteremo un albergo… Io me ne starò alla cassa, mentre Jean se ne starà sulla porta per ricevere gli ospiti… Farà gli acquisti… terrà la corrispondenza… Quella si che sarà vita, credimi… I conti li farò io, beninteso, e li farò salati! Perché non te l’immagini come io sappia farli salati… E nemmeno puoi immaginarti quanto siano timidi gli ospiti quando debbono saldare i loro conti!… Quanto a te… siederai come sovrintendente alle cucine. Tu, si capisce, non dovrai certo stare davanti ai fornelli, potrai esser calzata e vestita elegantemente quando ti presenterai davanti alla gente… E, data la tua bella presenza… si, non credere che ti aduli… non ti sarà difficile un bel giorno, accalappiare un marito! Per esempio un ricco inglese, si… perché quella, vedi (lentamente), è gente che si accalappia facilissimamente! E allora eccoci diventati ricchi!… (stanca). Oppure no. Non lo so; non credo più a nulla, io! (Si lascia cadere sulla sedia, appoggia le braccia sul tavolo e vi piega sopra la testa.) Più a nulla, non credo più assolutamente a nulla!. . .
MONOLOGO FEMMINILE
La gatta sul tetto che scotta
Tennessee Williams
MARGARET Senti, come urlano, senti!… Ma dove avranno le corde vocali quei mostri senza collo? Stasera a tavola ero talmente fuori della grazia di Dio, guarda, stavo per urlare! Un urlo da sentire di qui all’Ohio! Ho detto alla tua deliziosa cognata: « Perché non li fai mangiare in cucina, su una tavola cerata, i tuoi adorabili figlioletti? Non vedi che sporcano tutto?» Avessi visto la divinità offesa! « Come? – mi fa, – il giorno del compleanno di papa? Non me lo perdonerebbe mai!» Figurati, papà appena s’è seduto a tavola con tutti quei senza collo che s’ingozzavano e sbrodolavano, ha messo giù la forchetta e ha detto: « Santo Dio, Gooper, mandali in cucina, questi porci, mettili a un truogolo!» Io morivo, guarda…. Cinque, ne hanno, hai capito? E il sesto è in viaggio. Se li sono portati dietro in massa, pure i gemelli nella carrozzina, come una mandria da vendere alla fiera. Non stanno fermi un minuto. « Tesoro, fa’ vedere al nonno come sei bravo. Mostra le fossette. Di’ la poesia. Fa’ le capriole. E fa’ questo e fa’ quello». Una continuazione. Il tutto naturalmente, condito da allusioni velenose a noi due: esseri senza figli, sterili, inutili e da mandare al macero. Divertente, eh? Se non fosse… Non lo sai? Te lo dico io, bambino. Ti vogliono soffiare la tua parte d’eredità, ormai che tutti sanno che tuo padre ha il cancro. È arrivata l’analisi, oggi. L’ho appena vista. E non ti dirò che m’abbia sorpresa. Da questa primavera, quando siamo arrivati, avevo riconosciuto i sintomi. E figurati se non hanno mangiato la foglia il fratello e la cognata. Per questo hanno rinunziato alle fresche arie dei monti, quest’anno, e se ne sono venuti qui al caldo a fare i bagni di fiume, loro e tutte le scimmie. E non so se hai notato che non fanno altro che parlare del Monte della Speranza! Sai cosa è il Monte della Speranza? Un bellissimo moderno ospedale dove curano tutti gli alcolizzati e drogati del cinema. E vedrai che ti spediranno lì. Cosi il fratellone prenderà in mano i cordoni della borsa e dopo averti fatto interdire, si farà dare procura, firma in banca e tutto il resto, e a noi darà i soldi col contagocce, cosa che tu potrai considerare la tua più grande vittoria! Eh già, perché, santo Dio, tu fai di tutto per favorire i loro intrighi, sei il migliore alleato loro! Hai smesso di lavorare e ti sei messo a bere, fai lo stravagante, stanotte c’era bisogno che ti rompessi una caviglia saltando gli ostacoli allo stadio alle tre di mattina! Ti sta bene!….. Hai capito, Brick? Ma hai ancora una grossa carta da giocare. Tuo padre ti adora, e non può soffrire tuo fratello e tua cognata. Basta vedere che faccia fa alle dissertazioni dell’incubatrice, quando lei si vanta di aver rifiutato l’anestesia alla nascita dei due gemelli, perché la maternità è un avvenimento che una donna deve vivere in tutta la sua pienezza per assaporarne tutta la prodigiosa bellezza, per cui si è trascinata dietro anche il marito nella sala parto. Ad assaporarsi anche lui tutta questa prodigiosa bellezza, della venuta al mondo dei mostri senza collo! Papà, sulla cara coppia, la pensa come me! Io – io lo diverto, lo faccio ridere, gli piaccio. L’ho sorpreso che mi guardava le gambe…Si, mi guardava i fianchi, le gambe e si vede che ha l’acquolina in bocca… Un uomo alla sua età, ancora sensibile alla bellezza femminile. Sai che non sapeva neanche quanti ne avevano Gooper e Mae? Sul più bello, a tavola, gli fa: « Quanti figli avete?» Come se li vedesse la prima volta. Mamma ha buttato la cosa a scherzo, ma lui non lo sapeva davvero! E quando gli hanno detto che erano cinque e un sesto in viaggio, gli è preso un colpo! Che scena! Dio lo benedica, papà, come mangia! A tavola non vede nessuno. E quei due che gli stavano davanti in agguato come due falchi — coi senza collo tutti in fila — carini! — chi sui seggioloni, chi sull’elenco dei telefoni, con certi cappuccetti colorati di carta, come a carnevale, e i due genitori che decantavano le loro virtù, dandosi gomitate e pizzicotti e ginocchiate e strizzatine d’occhi una cosa oscena! Oscena!
MONOLOGO FEMMINILE
Capitano Ulisse
Alberto Savinio
CIRCE Ma che uomo sei tu?
Ti guardo e stento riconoscerti.
Se i tuoi occhi, la tua faccia, la tua voce
non avessero serbata la forma,
il suono di colui che…
ah, non farmi ricordare!…
giurerei che un estraneo, un ignoto, un nemico, scacciata l’anima di Ulisse,
s’è collocato in questo corpo
che non è più
se non una apparenza…
Dimmi, ti prego, sei tu Ulisse?
Chi chiama?…
Chiamano Ulisse…
e tu non rispondi!
(il suo occhio smarrisce)
E’ vero dunque!…
Forse…
(nuovi pensieri, e più nebbiosi, le traversano la mente)
dimmi: sei vivo ancora?
Non mentire: nemmeno per pietà!
Io ti vedo
come fossi morto,
ti parlo
come parlerei a un morto,
ti guardo
come guarderei una finestra murata
che ha chiuso il suo occhio al cielo…
Non capisco più!
La mia mente è debole, come in sogno…
Credi che riuscirò a liberarmi?
A sormontare questa invisibile montagna?
A varcare questa distanza terribile?…
Non sento più la voce… Ulisse, parla!
parla, per carità!
Dimmi una parola!
una parola sola!
Sì, ho sentito: qualcuno mi ha chiamata,
che non dovrò rivedere mai più…
Perché? perché se ne è andato?
Perché me l’hanno portato via?
Ecco: chiama ancora…
Che posso fare, io?…
Una volta conoscevamo assieme
un linguaggio dolcissimo, segreto, geloso,
lieve come il pensiero…
Chi sa se potrò riudire mai
quel linguaggio?…
Vorrei! appena un suono…
Pietoso sarebbe stato,
dolce forse,
dirmi che Ulisse non è più.
Che m’importava l’aspetto di Ulisse,
quando avessi saputo che quell’aspetto
gli era stato usurpato dal mio peggiore nemico!…
L’anima del vero Ulisse,
dell’Ulisse mio
sarebbe rimasta vicino a me,
come fedele fantasma.
(piange)
Vattene!
Avrei preferito morire,
piuttosto che lasciare i miei occhi piangere
davanti a te!…
Ma non posso! non posso!…
Anche i miei occhi
mi hanno tradita!
MONOLOGO FEMMINILE
La locandiera
Carlo Goldoni
MIRANDOLINA Che mai ha detto? L’eccellentissimo signor marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà: io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh avrei pure tanti mariti. Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me si innamorano, tutti mi fanno i cascamorti, e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi addirittura. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così è una cosa che mi muove la bile terribilmente! E’ nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà, la troverà… E chissà che non l’abbia trovata? Con questi mi metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste nel vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno: non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non mi innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati: e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare questi cuori barbari e duri, che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.
MONOLOGO FEMMINILE
I persiani
Eschilo
REGINA Mi accompagnano sempre, da quando mio figlio è partito per la guerra con il desiderio di distruggere gli Ioni, sogni notturni; mai però ho fatto un sogno chiaro nella sua evidenza, come la notte appena trascorsa. M’apparvero due donne, belle nelle loro vesti. L’una era in abiti persiani, l’altra in quelli dorici; le vedevo: la loro statura era molto più alta di quella delle donne attuali, la loro bellezza era senza difetti. Erano sorelle di sangue, della stessa stirpe, però una aveva avuto in sorte di abitare la terra di Grecia, l’altra la terra dei barbari. Era in corso una lotta tra loro, almeno così mi sembrava; mio figlio, Serse, se ne accorse e tentava di trattenerle e di ammansirle, aggiogandole al carro e ponendo le redini sui loro colli. Una s’ergeva come torre, fiera di quei finimenti, e prestava docile la bocca al morso, l’altra invece scalciava e con le mani faceva a pezzi le bardature del carro, e strappava con violenza e si liberava delle briglie, spezzando il giogo a metà. Mio figlio cade a terra; accanto a lui il padre, che sembra commiserarlo. Come Serse lo vede accanto a sé, fa a pezzi la veste che indossa. Questo il sogno di questa notte; dopo essermi alzata e aver immerso le mani nell’acqua pura di fonte, mi accostai all’altare in veste di offerente, volendo dedicare secondo il rito un sacrificio lustrale ai demoni che hanno il potere di allontanare il male. Vedo allora un’aquila che fugge verso l’altare di Febo; estai senza parola per la paura. Subito dopo vedo un falco che si precipita a volo e con gli artigli spenna l’aquila sul capo. E quella si rannicchia e offre, inerte, le sue carni. Provai angoscia a vedere questo spettacolo, voi la provate a sentirlo narrare. Ascoltate con attenzione: mio figlio, se avrà fortuna nell’impresa, sarà per tutti oggetto di meraviglia; in caso di mala sorte, no, non ha da rendere conto alla città, ma una volta salvo continuerà a reggere questa terra.
MONOLOGO FEMMINILE
Macbeth
William Shakespeare
LADY MACBETH Glamis lo sei, e Cawdor, e sarai anche quel che ti hanno promesso. Ma temo la tua indole: è troppo piena del latte dell’umana gentilezza per porre mano alla via più breve.
Vorresti essere grande, non sei senza ambizione.
Ma ti manca la crudeltà. La crudeltà che deve accompagnarti.
Ciò che vuoi lo cerchi santamente; tu vinceresti a torto però senza barare. Vuoi avere, grande Glamis, ciò che ti grida: «Devi fare così» se vuoi ottenerlo, e non lo fai.
Ma più per la paura che per la voglia che non venga fatto.
Fa’ presto ad arrivare, perché io possa versarti nell’orecchio il mio coraggio, e col valore delle mie parole annullare ogni ostacolo che t’allontana da quel cerchio d’oro di cui sembra che il fato ed un aiuto vogliano incoronarti.
(Si sente il verso del corvo)
Anche il corvo che gracchiando annuncia il fatidico ingresso del Re Duncan sotto i miei spalti è rauco.
Accorrete, voi spiriti preposti ai pensieri di morte, strappatemi via il sesso e ricolmatemi dalla testa ai piedi della più disumana crudeltà. Addensatemi il sangue; ostruite la porta e le vie del rimorso, perché nessuno scrupolo di pietà naturale riesca a scuotere il mio fiero proposito.
Venite al mio petto di donna e scambiatemi il latte con il veleno, voi agenti d’assassinio, ovunque, nella vostra invisibile sostanza, presiediate ai misfatti di natura. Vieni, spessa notte, fatti un manto del fumo più scuro dell’Inferno, così che il suo coltello penetrante non veda la ferita che produce.