William Shakespeare, nel corso dei secoli, è sempre stato considerato un autore attuale soprattutto peril ruolo che ha affidava ai suoi personaggi femminili. Mai prima di allora uno scrittore era riuscito a sondare così analiticamente la psicologia femminile, invece lui, risultò essere così bravo che molti studiosi ancora oggi ipotizzano che Shakespeare possa essere stato, in realtà, una donna.
Ma cosa sarebbe accaduto, invece, se Shakespeare avesse avuto una sorella dotata anch’essa di uno straordinario talento letterario?
Questo è il quesito che si è posta, a suo tempo, la straordinaria ed irriverente Virginia Woolf, autrice di numerosi romanzi, comunemente nota per le sue affermazioni alquanto rivoluzionarie, oggi, invece, ritenute assai all’avanguardia per l’epoca in cui furono scritte. In “Una stanza tutta per sé” (A Room of One’s Own), opera scritta nel 1929, l’autricesorprese tutti con un’affermazione a dir poco innovativa:
“Se il genio di Shakespeare fosse sbocciato in sua sorella Judith, nessuno avrebbe potuto evitarle il destino tanto tragico quanto quello di alcuni dei suoi personaggi femminili nati dalla penna del fortunato fratello. Costretta a reprimere il proprio talento”.
Questa sarebbe stata la storia di Judith Shakespeare? Virginia Woolf stava esagerando nello scrivere queste parole? Forse no. Tra il ‘500 e il ‘600 le donne assai dotate e intraprendenti non avevano la possibilità di esprimere le proprie doti e di condurre una vita libera e soddisfacente. Qualche donna tentava, invano, di fuggire a questi “doveri-obblighi”, che la società imponeva loro, e si metteva a studiare, a leggere e addirittura, scandalosamente, a scrivere. La regina Elisabetta I fu un’eccezione: le donne, infatti, non potevano mostrare passioni o velleità, e ogni loro espressione artistica doveva far capo ad un sistema di valori maschile e ad una classe sociale fondata sul patriarcato.
Questa regola venne inserita nella maggior parte delle opere di Shakespeare dove le donne, nel caso avvenissero defezioni o eccezioni, venivano punite nel finale quasi sempre con la morte, pagando così il debito del loro tentativo di emancipazione, o nel migliore dei casi (non trattandosi di opere tragiche) la sventurata diventava il bersaglio del ridicolo.
Purtroppo, il discorso che Virginia Woolf fece, in relazione al ruolo della donna a cavallo del XVI e XVII secolo, risultò essere attuale anche negli anni appena antecedenti all’autrice inglese. Infatti, molte scrittrici, inizialmente furono costrette a pubblicare i loro romanzi con degli pseudonimi maschili: basti pensare alle sorelle Brontë, che utilizzarono nomi quali Currier, Acton ed Ellis Bell. Oppure, la nota George Elliot, al secolo Mary Evans, che ancora oggi (purtroppo) viene riproposta dagli editori moderni con il suo pseudonimo maschile.
Oggi si pensa che probabilmente nelle sue opere il bardo volesse mettere in risalto la figura femminile e il suo animo, proprio perché pienamente cosciente del fatto che le donne erano poste ai margini della società elisabettiana; non è un caso, infatti, che nella maggior parte delle sue opere le donne avessero sempre un ruolo centrale, sia nel bene che nel male.
“Le stanze sono così diverse; sono tranquille o tempestose; aperte sul mare, o al contrario sul cortile di un carcere; c’è il bucato steso, oppure splendono di opali e sete; sono dure come il crine o soffici come le piume… basta entrare in una stanza qualunque di una qualunque strada perché ci salti agli occhi quella forza estremamente complessa della femminilità” – (Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf).